Mimmo, il medico giusto

Intervista alla sorella di Domenico Beneventano, ucciso dalla camorra il 7 novembre del 1980, pubblicata su inDialogo di marzo: «Era legato al suo territorio e viveva tra la gente. Si faceva carico dei loro disagi»

Quando le chiediamo qualche nota di presentazione, risponde solo: «Sono semplicemente la sorella di Mimmo Beneventano e nient’altro» come a non voler neppure per un attimo sottrarre la luce alla testimonianza del fratello, ucciso dalla camorra di Raffaele Cutolo il 7 novembre 1980. Rosalba Beneventano ha istituto nel 2012 la Fondazione «Mimmo Beneventano», che si occupa proprio di tenere viva e diffondere la memoria di suo fratello Domenico, che pagò con la vita l’impegno per la legalità e la giustizia, portato avanti nella Ottaviano degli anni ‘70 tra le file del Partito comunista. La denuncia dei loschi intrecci tra politica, imprenditori e camorra nell’area vesuviana, avevano decretato la morte del giovane consigliere comunale.

Rosalba, chi era suo fratello Mimmo, come lo descriverebbe?

Era una persona comune, un ragazzo normale, che però aveva qualcosa di straordinario dentro. Era legato al suo territorio e viveva tra la gente. Si faceva carico dei loro disagi, delle loro difficoltà. Aveva un’indole generosa e sensibile, che riportava anche nella sua professione di medico. Tutte le sue scelte nascevano dal suo altruismo.

Cosa vuol dire essere famigliare di una vittima di mafia?

Vuol dire chiedersi continuamente perché. La morte fa parte della vita, si sa, ma quando una persona che ami ti viene sottratta con la violenza ti domandi, appunto, il perché di quella morte. Il dolore, però, nella mia vita ha subito una metamorfosi. Mi sono resa conto che la memoria di Mimmo non poteva essere soltanto mia, personale, ma doveva diventare in Q un certo senso collettiva, pubblica.

Da questo percorso nasce anche l’impegno della Fondazione «Mimmo Beneventano» della quale lei è presidente.

Sì. Proviamo a coinvolgere soprattutto i più giovani. Cerchiamo di promuovere svariati percorsi e iniziative per educare alla legalità, coinvolgendo gli studenti di ogni età. Al centro c’è sempre la figura di mio fratello, con le sue idee e i suoi ideali, attraverso la quale cerchiamo di trattare temi attuali. In questi ultimi anni, ad esempio, abbiamo posto l’attenzione sul problema dell’immigrazione e delle tutela ambientale. Questo lavoro coi giovani è fondamentale.

Una domanda complessa: come si parla di mafia e come contrastare il fenomeno?

La prima cosa che mi viene da dire è che l’importante è, appunto, parlarne, parlarne sempre. Mio fratello è stato ucciso all’inizio degli anni ‘80 in un periodo buio, nel quale, in pratica, non si poteva parlare di camorra. Anche per noi familiari, ad esempio, affiggere dei manifesti ad Ottaviano nel giorno dell’anniversario della morte di Mimmo era una cosa alquanto rischiosa. Così come, al tempo, trovare un giornalista che indagasse davvero il fenomeno camorristico era difficile. Certo, i giornali si occupavano delle uccisioni o delle estorsioni, insomma dei fatti di cronaca legati alla camorra, ma i giornalisti studiosi del fenomeno, capaci cioè di illuminare i meccanismi e le dinamiche di potere della criminalità organizzata, erano ancora pochissimi al tempo. Il fatto che oggi si studi il fenomeno camorristico e che se ne parli molto più di prima, questo è già di per sé un’opera di contrasto che si aggiunge a quella, molto energica ed efficace, delle forze dell’ordine e della magistratura. Studiare le mafie e parlarne è importantissimo. Bisogna però evitare – tengo a dirlo – le strumentalizzazioni di alcuni sceneggiati televisivi sulla camorra, che io non guardo mai, che rischiano di esaltare certi comportamenti, quasi mitizzando talune figure criminali che finiscono col popolare l’immaginario comune più delle vittime. Se si prova ad andare in giro a chiedere il nome del protagonista di una delle serie televisive dedicate alla camorra sono sicura che tutti sapranno chi è. Se si prova invece a chiedere chi era Mimmo Beneventano: non tutti sapranno rispondere. 

Cosa può fare la Chiesa nel combattere il fenomeno della criminalità organizzata?

Devo dire che anche la presenza della Chiesa su questo fronte è cambiata nel tempo. Quando c’è stata l’uccisione di mio fratello fu fatto il funerale e basta. Oggi, invece, la Chiesa mi pare molto più presente sul fronte pubblico coi suoi messaggi di contrasto alla criminalità. Insomma c’è un impegno in visibilità maggiore. A Locri, ad esempio, dove mi sono recata nei giorni che hanno immediatamente preceduto la giornata della memoria delle vittime della mafia, sono stata colpita dalla presenza di tanti vescovi del territorio e dalla dichiarazioni molto decise e incisive; anche le parole pronunciate dal segretario di Stato vaticano, monsignor Parolin, mi sono piaciute molto. Sentiamo la Chiesa al nostro fianco in questa battaglia.

Se potesse tornare indietro nel tempo suggerirebbe a Mimmo di essere più prudente per evitargli la morte?

(Sospiro) Non penso che lui mi avrebbe ascoltato perché ciò avrebbe significato tradire se stesso. C’è da dire che prima dell’uccisione, Mimmo era stato già minacciato, ed era quindi perfettamente consapevole delle conseguenze della sua attività politica. Ma credo che non avrebbe mai fatto alcun passo indietro, anche per tutte le persone che credevano in lui.

Lei ha iniziato a occuparsi di mafie in seguito all’omicidio di Mimmo?

In verità ero coinvolta dall’attività di mio fratello anche prima, noi del resto eravamo molto legati. Ma in generale Mimmo era un trascinatore. Ad esempio, amo la letteratura dell’america latina che ho conosciuto attraverso lui. Mi ha trasmesC so anche l’amore per artisti come De André, Guccini, Luigi Tenco, conosciuti grazie alla sua passione, così come anche Pierpaolo Pasolini. É ovviamente, questa sua capacità di entusiasmare riguardava anche la sua attività politica: ci portava alle manifestazioni, ai comizi, agli incontri. Organizzava anche dei campi di lavoro in alcuni comuni limitrofi al nostro. Durante quattro o cinque giorni, andavamo in giro per le case a raccogliere vestiti, carta, ferro, che poi venivano rivenduti per darne il ricavato in beneficenza. Una volta, ad esempio, il ricavato fu donato per l’acquisto di letti tutti destinati all’orfanotrofio di padre Arturo d’Onofrio a Visciano. Insomma, la sua era un’attività instancabile per il bene comune, in molti ambiti: giustizia, ambiente, cultura. E molte erano le persone che Mimmo riusciva a trascinare dietro sé.

Impegnato politicamente nel Partito comunista, Mimmo aveva frequentato per un periodo anche l’Azione cattolica.

Ha iniziato a frequentarla subito dopo il nostro trasferimento a Ottaviano, avvenuto nel 1964. Era molto impegnato nel percorso formativo dell’Ac e, insieme, era anche molto critico talvolta, verso una Chiesa non sempre capace di povertà, di distacco da beni materiali, non sempre in grado di andare realmente incontro ai problemi della gente. Racconto un episodio paradigmatico, un evento dirompente che accadde nel novembre del 1971. Lui e il suo gruppo di amici pubblicarono un manifesto, che si incaricarono poi di affiggere nella zona di Ottaviano, San Giuseppe etc., sul quale veniva raffigurato il volto di Gesù con la scritta «ricercato» chiarendo, in un altro spazio del manifesto, i motivi per i quali l’uomo dell’immagine sarebbe inseguito dalla legge: esercizio illegale della medicina, fabbricazione di pane e vino, associazione con lavoratori estremisti, prostitute, gente comune e così via. Inutile dire che la trovata ebbe una grande eco, e anche la stampa locale se ne occupò. Gli autori del manifesto, tra i quali, appunto, mio fratello, non furono mai individuati. Entrare nel partito comunista fu, una scelta del tutto coerente coi suoi valori: il modo di Mimmo per lavorare alla promozione della giustizia sociale che tanto gli stava a cuore*.

 

*Pubblicaro su inDialogo.Mensile della Chiesa di Nola, Dorso di Avvenire Marzo 2017, p.1 

 

 




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